Le domande, quelle libere e potenti

Come designer lavoro attraverso le domande. Lo ho sempre fatto, per capire, approfondire, misurarmi con bisogni e aspettative diversi dai miei.

La ricerca con i clienti finali, ma anche la necessità di comprendere il dominio di riferimento del progetto, mi hanno condotto a chiedere, a chiedere incessantemente. Ho imparato, nel tempo, a fare domande aperte, prive di giudizio e di suggerimenti, ho allenato il circoscrivere degli argomenti senza offrire ipotesi, il cogliere ogni spunto di approfondimento, ogni risposta come un’opportunità.

Le domande nella ricerca sulle persone

Mi considero una buona ricercatrice perché riesco ad andare oltre le parole dette e a sviluppare una connessione profonda con la persona intervistata. Eppure quella che consideravo una certezza è stata messa a dura prova dalla facilitazione, dal confronto con facilitatori professionisti e dal lavoro partecipativo.

Nel design le domande di ricerca inseguono l’obiettivo: le persone sono chiamate a rispondere a domande orientate a far emergere conoscenza, zone d’ombra, bisogni e idee. Le interviste, spesso one to one, si concentrano a raccogliere l’esperienza individuale che diventa modello nell’insieme delle risposte delle persone.

Ma quando lavoriamo con i gruppi, nelle interviste collettive e o nel codesign tutto cambia: le domande rivolte alla collettività non possono essere quelle del singolo replicate o moltiplicate.

L’intelligenza collettiva ha bisogno di un allargamento dell’inquadratura che accolga la molteplicità del sentire collettivo senza perdere di vista l’individualità di ogni partecipante.

Come designer siamo attratti dalla capacità del codesign di divergere e far emergere tanto in breve tempo. Questo sconta, però, un eccessivo focus sui risultati a scapito del processo.

Le domande offerte durante i workshop di design sono la naturale conseguenza di tale approccio: orientate, focalizzate, dirette su esperienza d’uso e sul prodotto o il servizio. 

È quasi scontato che le conversazioni che si instaurano in questo modello prendano la forma di una partita di tennis dove la palla va e viene veloce tra il facilitatore e i partecipanti.

Le domande sono aperte, dirette e lineari e hanno davanti un bersaglio preciso. Questo è il modo di facilitare da designer, è una facilitazione orientata su binari prestabiliti.

I rischi sono due ed eternamente in agguato: il primo è che le persone non sono veramente libere di esprimersi perché il ruolo da designer resta ingombrante. Si guidano i partecipanti verso forme di accordo necessario all’attività, nel peggiore dei casi verso il risultato che auspica il designer. Si badi bene, questo non avviene razionalmente, come designer siamo infatti convinti di delegare la responsabilità decisionale al gruppo, ma nel 90% dei casi non è così, li guidiamo dove vogliamo noi.

Il secondo che perdiamo di vista la molteplicità degli scenari: ci concentriamo solo su una foglia quando potremmo godere del bosco. Il risultato e l’oggetto tolgono spazio alla meraviglia e alla potenza sprigionate dalla potenza del gruppo.

A riprova di questo le domande che offriamo durante i workshop di codesign sono tutto tranne che libere.

Le domande nel lavoro con le persone

Poi c’è l’approccio della facilitazione professionale che racconta un’altra storia. Quando si lavora con i gruppi non esiste oggetto senza processo ed è quest’ultimo che guida il primo. Le dinamiche decisionali collettive rappresentano il cuore dell’attività, i risultati che emergono valgono tanto quanto il percorso per ottenerli.

Nella facilitazione si attivano conversazioni autentiche dove convergere verso una meta può essere più facile, ma non essenziale. Grandi idee e cambiamenti si diffondono e si concretizzano quando piccoli gruppi di persone cominciano a confrontarsi e coinvolgono tutti.

Qui il facilitatore offre dei percorsi lasciando le persone libere di scegliere come essere coinvolte nel flusso della conversazione.

Ecco allora che le domande diventano un modo per attivare l’energia del gruppo e permettergli di scegliere come contribuire all’oggetto, i partecipanti sono orientati ad una scelta consapevole e responsabile perché è l’unica in grado di fornire risposte autentiche.

Accompagnare nello stato di flusso

L’obiettivo delle domande potenti è quello di stabilire connessioni inedite così da permettere alle persone di vedere cose in modi e prospettive nuove. Spesso le idee nuove emergono in maniera non lineare attraverso i collegamenti che sviluppa il gruppo. Si tratta di processi divergenti e laterali alimentati da analogie e metafore innescati da domande potenti.

Le persone vengono accompagnate, come ospiti, verso il tema di discussione attraverso un coinvolgimento profondo e l’obiettivo di scatenare lo stato di flusso dei partecipanti così da vivere un’esperienza intensa e immersiva.

É la zona di cui parla Ken Robinson, in The element, quello spazio dove le persone possono sperimentare la concentrazione, la focalizzazione perdendosi nell’esperienza che stanno vivendo. L’essere assorbiti dal tema e vedere il tempo scorrere più veloce significa entrare in un meta stato dove le idee si muovono veloci, si canalizzano e superano ogni ostacolo.

È quello che Mihály Csíkszentmihályi indica come uno stato di flusso dove attenzione e energia psichica vengono investite in obiettivi realistici, le abilità sono pari alle possibilità d’azione. É come se il gruppo di collegasse ad un alimentatore di energia e le domande fossero l’interruttore.

Il codesign e le domande

Scegliere le domande

Le domande vanno allora scelte con cura, il primo step è quello di interrogarci sulla loro essenza:

Le domande giuste catalizzano le energie e invitano a concentrarsi su cosa avviene veramente.

Non chiedono soluzioni, ma riflessioni e approfondimenti che il facilitatore aiuta a tradurre in risposte. Le domande devono allora rompere gli schemi mentali per aprire a nuove prospettive.
Sanno risvegliare la forza creativa e far emergere il nuovo.
Facciamo un esempio concreto che lavora sul sentire e sull’intelligenza creativa collettiva. 

Vogliamo riprogettare le modalità di apprendimento in azienda.

La domanda del design può essere espressa così: Che cosa non funziona oggi nei corsi aziendali?
È una domanda secca e diretta che chiude a qualsiasi nuova prospettiva. Le persone racconteranno, si influenzeranno e forse si freneranno.

La domanda della facilitazione potrebbe essere espressa così: Che cosa altro può essere l’apprendimento in azienda?
Cambia il punto di vista e apre l’inquadratura. Difficoltà e frizioni non spariscono, ma diventano parte del confronto generativo che portano il gruppo verso il nuovo.

L’approccio della facilitazione richiede una profondità diversa, la capacità di visione e la traduzione in risultati collettivi concreti. Serve esperienza, sapienza e presenza mentale, le domande supportano il processo.  La necessaria chiarezza d’intenti deve condurre ad interrogarsi prima sull’obiettivo da raggiungere. Che cosa vogliamo ottenere? E quindi a scegliere il piano di azione e il ruolo delle domande. Definire intento e approccio è il primo passo: quale è il nostro obiettivo nei confronti del gruppo? Che cosa vogliamo ottenere e che tipo di domande ci servono?

ESPLORARE
Che cosa pensate a riguardo? Che cosa vi sta veramente a cuore? Cosa occupa lo spazio maggiore?

APRIRE
Che cosa emerge? Cosa avete capito, imparato? Quali sono le domande che possono aiutarci?

SFIDARE
Che cosa ne concludete? Che cosa vi ricorda? Cosa vi aiuterebbe a spiegare?

COLLEGARE
Che cosa notate dall’insieme delle vostre risposte? Quale forma prende oggi il vostro apprendimento in azienda?

IDENTIFICARE CAUSE / EFFETTI
Da cosa trae origine questo e perché? Su che cosa ha effetto / conseguenza questo?

ESTENDERE
Quali sono le altre azioni / sensazioni a riguardo? Potete portarmi esperienze o esempi di altri ambiti?

IPOTIZZARE
Che cosa farebbe la differenza? Che cosa dovrebbe accadere per permetterci di sentirci pienamente impegnati ad affrontare questo?

ANALIZZARE
Cosa ci porta a concludere questo? Che cosa intendete con questo?

FOCALIZZARE IL PROCESSO
Che cosa conta nel percorso personale e collettivo di apprendimento in azienda? Che cosa vi sta veramente a cuore? Quale prospettiva abbiamo perso nella nostra riflessione?

DETTAGLIARE
Quali sono le riflessioni che sottendono questo? Quali domande emergono da queste conclusioni?

RIASSUMERE
Che cosa abbiamo imparato? Dove siamo in questo momento?

METTERE IN PRATICA
Come utilizziamo tutto questo? Come possiamo trasformare questo in azioni pratiche? Quali devono essere i nostri prossimi importanti passi?

SONDARE
C’è qualcos’altro di cui volete parlare? Come vi sentite a riguardo? Cosa dovrebbe accadere per sentirci pienamente impegnati/ appagati?

Le domande nella facilitazione hanno un peso specifico diverso da quelle del design, sono meno soggette all’urgenza della soluzione e della consegna, ma richiamano ad una maggiore responsabilità individuale. L’obiettivo da raggiungere c’è in entrambi i casi, la differenza sta nell’approccio, in quell’atteggiamento più confidente e fiducioso nei confronti di un gruppo che deve trovare da solo la propria forma e la propria essenza e che, qualunque esse siano, come facilitatori, non possiamo che accoglierle con cura e tenerezza.

Alla fine abbiamo tutti bisogno di domande che ci rendano liberi.

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