Progetti ciclopici, giovani designer e tanta fiducia creativa

Designer, talento e creatività

Questo è stato un anno molto particolare, popolato di progetti e docenze poliedrici e sfidanti. Sono grata a tutti coloro che mi hanno dato fiducia e hanno fatto un pezzo di strada insieme.

L’ultimo intensissimo progetto didattico si è concluso qualche giorno fa e lo racconto ancora a caldo tra fatica, nuovi insegnamenti tratti ed emozioni, che non sono mancate ?
Da ottobre ho lavorato con il gruppo di giovani designer di Roma per il Master IED in UX design.
Una tesi/progetto da elaborare in team, un interlocutore e un brief reale (l’esperienza di un aeroporto internazionale), tempi serrati (due mesi e mezzo).

Ma andiamo per gradi. I protagonisti di questa storia sono sei (più Irene, fantastica tutor): Marco, Renato, Gaia, Francesco, Giada, Antonio, sei designer under trenta che si sono misurati con un brief molto complesso: ripensare l’esperienza omnichannel da restituire ai viaggiatori, trasformando l’aeroporto “da non-luogo a luogo” attraverso le nuove tecnologie.

Il processo di design è stato un continuo produrre e distillare idee, informazioni, dati

Stressare, perimetrare e poi stressare di nuovo ogni idea

Una sfida molto complessa ad iniziare dalla difficoltà di definire un perimetro di design, intercettando i confini entro i quali progettare.

Il progetto ha seguito l’approccio design thinking, 80% del tempo è stato dedicato a stressare temi e problemi con i quali confrontarsi.
Cosa sono gli aeroporti oggi? A cosa ambisce trasformarsi il nostro? Perché? Cosa vuole ottenere? Quali sono i limiti e gli ostacoli? Quali sono le aree che hanno bisogno di maggiore innovazione? Chi è il viaggiatore? Quali sono i suoi bisogni e le sue necessità principali? Ogni risposta è stata sottoposta nuovamente ad uno stress test: perché potrebbe non essere così? Che cosa ostacola o frena questa soluzione?

sessioni di codesign
Infinite sessioni di codesign

Cosa sappiamo oggi?

Attraverso una serie di sessioni di codesign il team ha messo insieme tutte le informazioni provenienti dai committenti o recuperate attraverso differenti canali. Quindi i designer hanno cercato informazioni direttamente su campo, studiando come i viaggiatori vivono lo spazio aeroportuale.

Ne è emerso un tema trasversale che si è trasformato nel primo asset progettuale: la trasformazione, digitale e non solo, che l’aeroporto sta mettendo in atto, manca di una narrazione integrata. Le idee e i progetti esistenti necessitano di un’identità più definita pena la percezione di una risposta frammentata dell’esperienza offerta.

Un concept, una filosofia di vita

Il team ha identificato un concept, lo spazio controllato dove identificare le soluzioni di design: la grande bellezza, l’Italia come officina rinascimentale capace di plasmare il bello in ogni sua forma e in ogni momento. La bellezza anche come modus vivendi, quell’Italian way of life che il mondo ci invidia.

Bene, il ritmo era deciso, a sostenere questa idea anche il lavoro di analisi del team sui migliori aeroporti internazionali che richiamavano sempre un’idea di base.
La definizione del concept ha rappresentato il primo tassello del perimetro.

Un concept e un’idea forte identifica il perimetro di design (design di Marco)


Molti dati, molti bisogni

Il team ha fatto il primo touch down, ma poi c’era il resto da affrontare.
Qui il terreno di gioco si sposta: dal luogo fisico alle persone.

Lo zoom è focalizzato sul team interno all’aeroporto:
Che cosa vuole ottenere? Esiste un intento comune? Quale è il bisogno comune a tutte le unit coinvolte?
Come è possibile trovare una sintonia di intenti che soddisfi ogni area interessata?


Il team ha coinvolto il gruppo interno per identificare focalizzare meglio l’obiettivo. Il lavoro di emersione è stato complesso: come in una piramide invertita si è andati raffinando e setacciano i temi, in un processo di clustering e stressing fino ad arrivare ad un comun denominatore: il recupero dei dati dei viaggiatori avrebbe permesso all’azienda una trasformazione in data driven organization.
Ecco allora il secondo tassello del perimetro: identificare idee che permettessero di recuperare dati specifici riguardanti azioni, comportamenti, scelte delle persone.
L’analisi dei bisogni e delle aspettative dei committenti ha permesso di elaborare una sfida di design molto puntuale (framing the challenge) che ha accompagnato tutti gli step successivi.

No data no party?

I dati sono stati recuperati attraverso un safari walkthrough, il tempo e le norme di sicurezza negli spazi aeroportuali non hanno permesso una ricerca più strutturata. Il team era pronto a interviste intercept che aiutassero a capire su quali paure, necessità, frustrazioni concentrarsi, non è stato possibile, amen.
Da bravi designer hanno individuato soluzioni alternative stressando i dati forniti dal committente.
Questo ha permesso di ampliare i personas pre-esistenti e di costruire delle customer journey in grado di ragionare in maniera più strutturata sui comportamenti dei viaggiatori.

A questo punto il team aveva parecchi ingredienti per ideare, ma il rischio di idee popcorn (=senza regole) era ancora in agguato. Il mix di idee che soddisfacessero i bisogni dei viaggiatori, il recupero dei dati e la riconoscibilità del brand rappresentavano ancora uno zoom troppo ampio.


Restringi lo zoom e fallo velocemente

Il team UX master ha allora identificato i principali ambiti interessati alla trasformazione onlife dello spazio aeroportuale (food, retail, mobility, etc.). Ogni membro del team ha scelto un ambito e ha prodotto 10 idee, che:

Difficile? Sì difficile, ma non parliamo di un team qualunque. Tutti hanno prodotto idee attraverso una fiducia creativa (creative confidence) che non pone limiti alle possibilità. Le idee sono quindi state condivise, stressate, fuse insieme, sono nate idee nuove e solo le più convincenti sono passate al livello successivo.

La selezione è stata sottoposta a un nuovo stress test: perché funzionano? Perché non funzionano? Quali sono le criticità e i punti deboli? Per chi funzionano maggiormente? Per chi meno? Quanto costa realizzarle? Quale sforzo richiedono? Di quale tecnologia ha bisogno? A chi parla? Come deve parlare?

La discussione della tesi e la presentazione del progetto

Top Ten Ideas


Sono 10 le idee che hanno passato lo stress test e sono andate allo step seguente: la presentazione al committente che ha coinciso con la discussione della tesi. Il team UX master ha capito che la natura omnichannel o onlife del progetto chiedeva un racconto diverso dal solito. Le sole slide non bastavano a portare gli spettatori (committenti e pubblico della sessione di tesi) dentro il processo. Serviva una narrazione diversa: digitale, ma anche fisica che permettesse alle persone di riflettere e interagire.
Tra slide e oggetti fisici (poster di CJ, poster e cartoline di idee e stelle-voto) il team si è mosso agile in una narrazione intensa e sentita. Dieci poster appesi ad un cavo di acciaio per dieci idee, ognuna con l’ambito di riferimento, i valori per clienti e brand e l’effort realizzativo.

Al termine del racconto un QR code ha permesso agli spettatori di votare online l’idea più funzionale ed urgente, mentre i committenti hanno assegnato il loro voto tramite stelle best exp attaccate sui poster-idea appesi.

I poster e la cj sono stati appesi il giorno prima e coperti da carta velina fino al momento della presentazione

Fino a qui tutto ok


Il lavoro ha trovato un primo traguardo qui in uno sprint di circa due mesi e mezzo di lavoro, intensi anzi, intensissimi.
Cosa avverrebbe se il progetto dovesse andare avanti? Beh, gli step successivi potrebbero essere quelli di valutare le idee più votate dal team interno e dal pubblico esterno e iniziare una nuova fase di valutazione analizzando, questa volta, la fattibilità e l’impatto che le idee sono in grado di generare.
Ma queste sono cose da chiedere al team ?

Gli spettatori e i committenti hanno potuto leggere e votare le idee


Piccola riflessione finale

Giada, Antonio, Francesco, Renato, Marco e Gaia sono giovani designer talentuosi, si sono fidati/affidati e hanno lavorato con testa, mani, cuore.
Ho imparato che, in situazioni come questa, non serve un docente, ma un coach che sollecita, orienta e dirige.
Il talento non ha bisogno di guida, ma di qualcuno in grado di vedere la forma che prenderà. Le regole, le tecniche si imparano dai libri, ma pensare da design è un’altra cosa. Il mindset è un percorso individuale di crescita e trasformazione che va oltre la didattica tradizionale.

Forse questo potrebbe essere il futuro dell’insegnamento a tutti i livelli. Ci sto ancora riflettendo. Personalmente ne esco affaticata, ma grata, ho imparato tantissimo e ho potuto sperimentare alzando via via l’asticella di visione e aspettative.

Hanno brillato tutti, hanno lavorato in perfetta consonanza e hanno risposto con coraggio e apertura ad ogni sfida lanciata. C’è davvero tutto per un futuro da ottimi designer.

Il prossimo post ti arriva diretto

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