Quello che il design thinking, spesso, non dice

Questo post nasce dall’esperienza e dalle letture di questi ultimi mesi, lo so, sono stata un po’ latitante 🙂
Ho utilizzato processi e tecniche del design thinking e ho studiato molto la sua applicazione in casi reali, con una particolare attenzione all’universo del patrimonio culturale. Ecco alcuni pensieri.

Il design thinking sta diventando una risorsa strategica per tutti i tipi di organizzazioni. Tutti lo applicano, chi bene, chi male, chi per finta. Il vantaggio del design thinking sta nel fatto che è composto da tante cose, anche quando, nei progetti, se ne utilizza una minima parte penso sia un’ottima cosa.

Il design thinking affronta problemi reali, come le organizzazioni si aprono al mercato e a tutte le persone di riferimento, in primis i clienti (customer experience). Ma, come accade spesso nel design, scopre punti nevralgici del problema, che inutile dirlo, sono all’interno dell’organizzazione stessa. 

Offrire una buona esperienza cliente presuppone l’adozione di modelli customer centered dell’organizzazione. Ripensare il modello è prima di tutto un cambiamento culturale interno.

David Buchanan ha studiato a fondo il problema nel tempo, se già nel 2008 ha sostenuto che il cambiamento delle organizzazioni deve passare dalle attività pratiche e, pochi anni dopo, che il design dietro ogni riforma organizzativa è fondato prioritariamente sulla qualità dell’esperienza offerta al cliente.  Per cambiare la cultura interna, e il modo in cui le persone lavorano e si impegnano, deve trasformarsi la qualità dell’esperienza, il design thinking è un potente strumento di facilitazione di tale processo promuovendo l’approccio umano all’interno delle organizzazioni.

Tecnologia e management come innesco

Fino ad oggi le organizzazioni nel percorso verso la customer centricity si sono concentrate molto su tecnologia e organizzazione poco e nulla sul modo di dialogare con i clienti.

Puntare sulla tecnologia si traduce spesso nell’impiantare strumenti esterni su terreni fragili. Un call center poco efficace non diventerà magicamente efficiente tramite potenti piattaforme di gestione cliente. La situazione potrà migliorare, ma sarà un misero effetto placebo.

Indirizzarsi sul management, sulla creazione di aree e funzioni dedicate può rivelarsi altrettanto lasco se il resto dell’organizzazione assume una funzione da spettatore del cambiamento.

Al centro del problema c’è la complessità nell’assumere nuovi modelli, nel vincere l’inerzia. Il cambiamento spaventa, è faticoso, va gestito. Spesso le persone preferiscono una situazione mal tollerata all’ignoto di un qualcos’altro.

È qui che ha un ruolo il design thinking. Questo utilizza la sensibilità e i metodi del designer per combinare i bisogni dei clienti con il tecnologicamente fattibile e la visione strategica dell’organizzazione. Ma in realtà è molto di più, gli obiettivi per cui viene impiegato sono solo una parte del risultato finale.

Il design thinking come ariete

Nelle organizzazioni che ho studiato in ambito culturale il design thinking è entrato per risolvere problemi di servizio alle persone. Ma poi, ogni volta, guidato da team esterni o da manager illuminati, lo staff di musei, biblioteche, parchi archeologici e mostre, si è trovato a vivere un’esperienza molto più profonda.

Attraverso l’osservazione e l’ascolto dei visitatori, attraverso la condivisione e il confronto di strumenti e materiale di ogni fase ha capito come superare l’inerzia. L’inerzia è il principale bloccante della trasformazione, perché rappresenta l’incapacità di riconoscere il cambiamento come fattore indispensabile all’esistenza.

La resistenza al cambiamento

L’individuo all’interno dell’organizzazione resta fermo sulle proprie posizioni incapace di imparare dal contesto e dagli altri a causa, e qui scomoderemo Peter Senge, di sette cause ostili presenti in ogni tipo di organizzazione:

  1. Io sono la mia posizione. Siamo talmente leali nei confronti dei nostri incarichi da confonderli con la nostra identità
  2. Il nemico è lì fuori. Quando le cose non vanno si cerca un responsabile. Può essere un agente esterno, la concorrenza ma il primo nemico è sempre interno.
  3. L’illusione di farsi carico. Reagiamo d’impulso quando le cose non funzionano, essere proattivi è spesso reattività sotto mentite spoglie. È un tipo di azione che scatena reazioni compensative, potenzia il problema invece di risolverlo.
  4. Concentrarsi sulle foglie nella foresta. Si lavora sul fenomeno e si perde di vista l’insieme.
  5. L’effetto rana bollita. Si resta immobili nella situazione mentre questa diventa irreparabile. Vince un’inerzia a lungo fatale mentre menti e azioni restano connesse ad un’unica frequenza. Lo so, è orribile la rana che non si muove dentro la pentola che piano piano va in ebollizione  ☹
  6. L’illusione di apprendere dall’esperienza. Quando si aspira al cambiamento l’orizzonte dell’apprendimento diventa un limite reale e impedisce di vedere il nuovo.
  7. Il mito del management team. I team compatti e allineati non sono la soluzione al nuovo. Servono domande scomode e divergenza che permettano inquadrature inaspettate.

Per vincere questi cicloni c’è bisogno della forza del fare e del sentire collettivo. Se la conoscenza dei meccanismi profondi chiede tempo e consapevolezza da parte di ognuno, il fare invoca l’urgenza della visualizzazione e della concretezza. 
Il cambiamento culturale è il motore dell’innovazione, tecnologia e processi organizzativi sono il di cui di una necessaria trasformazione molto più profonda. Il design thinking permette di vedere, toccare con mano il servizio, capirne le frizioni e immaginare soluzioni trasversali e condivise. Attraverso la creatività e la collaborazione lo sforzo diventa collettivo e la responsabilità di tutti.

Buchanan ricorda che è nella cultura interna il motore dell’innovazione, che si traduce nell’intervenire, in primis, su inerzia e resistenza. Come? Attraverso il coinvolgimento e la collaborazione effettiva. Quando questi ultimi sono solo di facciata si rivelano un vero e proprio boomerang: le persone subiscono una retroazione irrigidendosi ulteriormente al cambiamento.

L’azione dunque può essere shock oppure lenta e graduale, ma l’adattabilità e il set di strumenti del design thinking, offrono una risposta concreta alla trasformazione guidando le organizzazioni, attraverso la gradualità del fare e della sperimentazione, dalla rigidità dei modelli tradizionali alla creatività e al dinamismo dei modelli centrati sulle persone, clienti e non solo.

Approfondisci!

Co-Creating Change: Why Design Thinking for Change Management Works (voltagecontrol.com)

Design thinking and how it will change management education: an interview and discussion

Applying design thinking approach to lead organizational change

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