Riti, comunità e yūshū no bi

tempo del rito e comunità autentiche

L’estate mi ha permesso di staccare, di vedere e leggere solo cose belle.

Staccare dal quotidiano e dalle consegne dà la possibilità di creare spazio per il nuovo ed ecco che, anche nel solito tram tram, si scorgono angoli inesplorati e dettagli che illuminano.

Condivido allora volentieri la lettura di Byung-Chul Han, filosofo e docente all’Universität der Künste di Berlino, che rappresenta una delle voci più interessanti nel panorama degli studi teoretici.
Il professore Han mi perdonerà qualche eccesso di semplificazione, ma proverei a riportare le teorie della sua scomparsa dei riti ai temi che più pragmatici riguardanti le comunità formali o informali in ambito organizzativo.

Che cosa spiega Han in questo volumetto? Che la nostra società ha bandito la ritualità a tutti i livelli. Lo ha fatto in nome di una società all’insegna del consumo. Tutto viene consumato: prodotti, relazioni, processi, emozioni. Tutto deve essere sfruttato attraverso un flusso costante, in una mera sequenza episodica che precipita in avanti.

Il regime neoliberista rafforza l’attitudine al seriale: al produrre e consumare senza quiete e soluzione di continuità. Non consente inizio né fine, tale coazione permanente al consumo produce un “disaccasamento“, un non-luogo, dove diventa impossibile riconoscersi, dove la vita diventa contingenza effimera e incostante.

La bellezza della fine delle cose

La consumazione, ma anche la produzione, seriale non conosce quiete, diventa la misura del vivere: ci rapportiamo al mondo come consumatori di qualcosa. Perché oggi non consumiamo solo cose, ma anche emozioni, che, a dispetto degli oggetti, sono illimitate e ci sprofondano in un consumo senza fine.
Anche i valori sono oggetti di consumo: giustizia, umanità sostenibilità sono alimentati al fine dello sfruttamento economico. L’atteggiamento neoliberista si alimenta sul consumo, sguazza nella totale assenza di percezione simbolica e fa scempio attraverso la glorificazione narcisistica e la libido dell’io.

Il professore Han spiega come all’origine di cambiamenti così complessi ci sia il venire meno delle azioni simboliche. I riti, la ritualità rappresentano l’altra faccia della performance individuale a cui siamo tutti chiamati quotidianamente. Eppure sono quelle stesse azioni simboliche, che tramandano valori e ordinamenti, i pilastri del senso comunitario.
A sostenere i riti è la percezione simbolica che permette di liberarsi dalla contingenza ottenendo un che di permanente. I riti sono tecniche di “accasamento”: significa riconoscersi in una casa, un luogo sicuro, affidabile, calpestabile.

La stabilità del rito si contrappone a un tempo incerto, un flusso incostante che la ritualità stabilizza attraverso un inizio e, soprattutto, una fine, yūshū no bi, un termine peculiare giapponese che indica la bellezza della fine. Perché, come si festeggia l’inizio (di un amore, di un nuovo lavoro, di qualsiasi impresa), è necessario festeggiare la fine.
I riti questo fanno, aprono e chiudono il tempo, scandendolo. In questo tempo definito le cose non vengono consumate, bensì usate, così che abbiamo i ritmi di invecchiamento e declino. Noi, oggi, consumiamo e non lasciamo deteriorare, non aggiustiamo, non valorizziamo cicatrici importanti come nel kintsugi (l’arte di aggiustare e dare nuova vita alle ceramiche rotte), buttiamo per tornare a consumare, con il risultato che le cose consumano noi.

Nelle società della performance come quella in cui viviamo ci si sfrutta da soli credendo di realizzarsi, ma si alimentano introspezione narcisistica, coabitazione indistinta tra spazio pubblico e privato, perdita di ogni mistero, compresa la magia della leggerezza.

Le comunità autentiche sanno stare ferme

Comunità e tempo del rito

Il rito fissa un momento comune dove il tempo sospeso sacralizza la forma, è uno spazio meno trasparente, ma che coltiva incanto ed energia a supporto della comunità.
Le comunità non si creano, si possono solo coltivare, il rito ne sacralizza lo spazio. Anche le community in senso sociale sono una mercificazione consumistica, non sono vere comunità perché manca l’energia in grado di sostentarle. Le comunità autentiche non accelerano, sono luoghi narrativi, scanditi da simboli e da silenzio, sanno stare ferme. Nelle comunità vere l’individuo si pone in risonanza con gli altri, la risonanza è l’antitesi del sé, quello che rimbomba ogni dove nei social network.

Le comunità creano conoscenza e memoria incarnate, c’è forte la dimensione corporea che permette agli individui di uscire da sé attraverso volontà e interessi comuni rendendo il mondo un posto abitabile.

Lo spazio comunitario ha senso se dà vita ad un tempo ritualizzato e scandito come nello spazio scenico, mentre quello dettato dai social è, in realtà, uno spazio di esibizione solipsitica, un mercato dove non si coltivano relazioni, ma solo connessioni.

La comunità, attraverso il rito, rifonda sé stessa tramite esercizi di attenzione continui che permettono il re-incanto del mondo. Dove scompare tutto questo c’è solo rumore bianco che colma silenzi assordanti.

La forma dettata dal rito vale quanto il contenuto, significante e significato nello spazio delle comunità autentiche restituiscono pesi equivalenti, la forma bilancia la sostanza e ne esalta il valore a patto che prevalga il sentimento collettivo di riconoscimento dell’essere comunità.

In pratica

Le riflessioni di Hun sono tutt’altro che teoriche perché ognuno di noi, nel suo piccolo, può ricondurle a vissuti personali. Vi lascio allora alcune domande o spunti di riflessione inspirate da questa lettura.

Prova a riflettere sulle comunità che conosci o a cui appartieni, che possono essere professionali, legate a valori o interessi personali e analizzale attraverso queste domande.

All’interno della tua realtà quale può definirsi “comunità autentica”, senza riverberi narcisistici degli individui? La mia è una comunità autentica? In questa gli individui sono solisti o operano in consonanza? Quale è il vero collante che unisce e orienta la mia comunità? La mia comunità sa bilanciare contenuto e forma in maniera armonica? Gli individui che la formano, ognuno a suo modo, partecipano all’unisono? Quali e quanti riti vengono condivisi? Come viene scandito il tempo all’interno della comunità? Lo spazio-tempo produttivo si alterna a quello sospeso e rituale? In quali modi? Gli individui riconoscono e si riconoscono nella percezione simbolica intensiva del momento collettivo? Sono in grado di sospendere il quotidiano per creare lo spazio necessario alla comunità? Riconoscono il tempo rituale come utile e necessario?

Le comunità non sono tutte uguali, ma la differenza consiste nel loro essere autentiche, osservarle dall’esterno è il primo passo per capirne il valore e rifondarle ogni volta che serve.

Riferimenti

La scomparsa dei riti di Byung Chul Han

La bellezza della fine di Laura Imai Messina

Il kintsugi

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