Tra dati pregressi e libertà di azione

I dati esistenti nei workshop collaborativi

Quando progettiamo e facilitiamo workshop, ci troviamo spesso davanti a un bivio silenzioso, ma cruciale: quanto e come farci guidare dai dati pregressi dell’organizzazione? E quanto invece mantenere uno sguardo fresco, neutrale, libero da condizionamenti?

È una domanda che attraversa il nostro lavoro, anche se raramente la mettiamo a tema in modo esplicito. Ma vale la pena fermarsi un attimo a riflettere, perché il modo in cui interpretiamo i dati può influenzare profondamente il clima, la qualità del dialogo e i risultati di una sessione collaborativa.

I dati pregressi: miniera d’oro o trappola invisibile?

Partiamo dal recupero delle informazioni esistenti. In molte organizzazioni ci sono già report, risultati di survey, documenti strategici, valutazioni interne, magari  insight raccolti da progetti precedenti. A prima vista, immergersi in questo materiale sembra la cosa più saggia da fare: ci aiuta a capire il contesto, a non fare domande già fatte, a non proporre attività che ignorano fatti già noti.

E in effetti, conoscere i dati può fare la differenza. Permette di cogliere pattern ricorrenti, resistenze latenti, questioni strutturali che le persone magari non nomineranno spontaneamente. Aiuta a costruire una sessione che non sia troppo generica, ma che tocchi nervi veri.

Eppure, c’è un rovescio della medaglia. Più ci addentriamo nei dati, più rischiamo di assorbirne le narrazioni dominanti, in alcuni casi addirittura tossiche. Di dare per scontato che “le cose stiano così”. Di perdere, senza accorgercene, quella curiosità radicale che è il cuore del nostro lavoro. I dati, se non gestiti con cura, possono diventare un filtro, un’ancora cognitiva che limita invece di aprire.

Il pericolo è duplice: da un lato, quello del bias di conferma, che ci fa cercare solo ciò che conferma ciò che già sappiamo; dall’altro, quello di creare un’agenda implicita che incanala la sessione in direzioni prestabilite, anche se i partecipanti avrebbero portato altri temi, altre domande, altre priorità.

Il valore dello sguardo fresco

Qui si materializza il valore di uno sguardo fresco. Un facilitatore esterno ha, o dovrebbe avere, la capacità di muoversi con una neutralità attiva: non nel senso di “non prendere posizione”, ma nel senso di non avere un’agenda da difendere. Di essere libero dagli esiti, ma profondamente impegnato nel processo.

Questo sguardo pulito, curioso, a volte persino un po’ ingenuo, è preziosissimo. Perché permette di vedere ciò che gli altri non vedono più. Di porre domande che scardinano abitudini, che smascherano automatismi, che aprono varchi.
Ma attenzione: uno sguardo troppo fresco, completamente disinformato, rischia di essere percepito come superficiale. Di proporre esercizi non centrati, o peggio, domande che irritano invece di attivare.
Come spesso accade, la chiave sta nel trovare l’equilibrio: conoscere abbastanza per essere pertinenti, restare abbastanza distanti per essere utili.

Una via di mezzo? Sì, ma intenzionale

In alcuni casi può essere utile separare i ruoli: una parte del team progettuale si occupa della lettura e dell’analisi dei dati interni, mentre il facilitatore mantiene un contatto solo indiretto, attraverso domande-chiave o mappe di sintesi. Oppure si può costruire una lettura riflessiva, non neutra, ma consapevole, da validare insieme ai partecipanti. Un punto di vista che apre, mai una diagnosi irreversibile.

Per esempio: anziché mostrare i risultati grezzi di un sondaggio interno, si può partire da una domanda come “Cosa ci racconta davvero il fatto che solo il 37% delle persone sente di poter esprimere le proprie idee nei meeting?” È un cambio di tono sottile, ma decisivo: si passa dal dato come verità oggettiva al dato come stimolo di senso e co-costruzione.

Presentare i dati con rispetto e intenzione

Infine, un passaggio spesso trascurato: come condividere i dati con i partecipanti?
Non è un dettaglio tecnico, ma una scelta strategica.

I dati, se usati con intelligenza, possono essere un potente attivatore. Possono sorprendere, provocare, mettere in discussione convinzioni consolidate. Ma per fare questo devono essere contestualizzati, narrati, discutibili. Non basta proiettare una slide con una percentuale: serve accompagnare al ragionamento critico attraverso  domande, metafore, alternative di lettura.

In certi casi, alcuni dati vanno protetti. Se veicolano il giudizio (es. livelli di performance per team, o tassi di turn over), vanno gestiti in uno spazio sicuro, con l’obiettivo dichiarato di costruire qualcosa, mai di puntare il dito.

Meglio pochi dati, ma significativi, capaci di generare domande. E soprattutto, meglio ancora se accanto al “dato freddo” portiamo anche il dato vivo: quello che emerge dalla voce delle persone presenti. Quello che si racconta, si intuisce, si sente. Quello che accende il cambiamento.

Allora i dati sono preziosi, ma solo se li usiamo come stimolo, mai come verità assolute. Lo sguardo fresco del facilitatore è un patrimonio da proteggere, ma anche da nutrire con una giusta dose di contesto.
Presentare i dati in modo riflessivo, aperto e narrativo può trasformare una sessione in un vero momento di consapevolezza collettiva.
In fondo, il nostro compito non è portare risposte, ma creare le condizioni perché emergano domande nuove. E per farlo, serve stare con un piede dentro e uno fuori: tra ciò che l’organizzazione è già e ciò che potrebbe diventare.

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