I servizi pubblici non hanno bisogno solo di tecnologia, di intelligenza artificiale, ma di ridisegnare la loro ragione di essere.
Da giorni sono immersa in uno studio vischioso, a tratti risucchiante, sul rapporto tra servizi e pubblica amministrazione. A breve partirà un master molto innovativo sul tema, ma non vi preoccupate perché gli dedicherò lo spazio necessario a raccontarlo. Qui invece proverò a mettere in ordine le molte riflessioni che spiegano da cosa è nato.
Lo stato dell’arte in Italia dei servizi pubblici
Come cittadini, negli ultimi anni abbiamo imparato tutti molto sul digitale. Come addetti ai lavori abbiamo informatizzato moduli, creato app e tassonomie, aperto sportelli online, creato modelli e corsi per aiutare lo staff della pubblica amministrazione a digitalizzarsi. E a riguardo non possiamo che ringraziare l’Agid per il suo impegno.
Ma in questa spinta, necessaria e propulsiva, sembra ancora mancare qualcosa.
Assistiamo infatti ad un fenomeno diffuso in tutto il mondo: la digitalizzazione di servizi esistenti, senza metterne in discussione il senso. Il risultato? Processi più veloci, ma non necessariamente più efficaci ed inclusivi. Perché la vera sfida risiede proprio qui, sull’inclusività. Stiamo progettando per permettere a tutti di usufruire in maniera facile dei servizi? O stiamo lavorando solo per alcuni? Solo per chi trae realmente vantaggio dal digitale?
Questo è un tema dirimente, la trasformazione digitale è indispensabile, ma è solo un tassello di politiche pubbliche più illuminate e inclusive. Il focus, infatti, si sposta su come possiamo riprogettare i servizi perché tutti, indistintamente, possano accedervi.
È lo stesso passaggio che abbiamo attraversato agli inizi di internet quando i testi analogici venivano traslati sul web tali e quali. Un servizio, come un contenuto deve essere progettato per il modo in cui viene offerto, perché prodotto e canale oggi sono sostanzialmente inscindibili.
E allora bisogna fermarsi e ripensare la trasformazione digitale come uno cambiamento strategico nella progettazione dei servizi pubblici. Il design ha proprio tale funzione: perché non serve solo a fare, ma a capire. Il design aiuta a porre domande nuove.
Non “come possiamo digitalizzare questo servizio?”, ma “ha ancora senso che questo servizio esista in questa forma?”.
Non “quale interfaccia usiamo?”, ma “quale tipo di relazione vogliamo costruire tra cittadino e istituzione?”.
Il design è, prima di tutto, mindset strategico: un modo di leggere la realtà con occhi diversi, di partire dai bisogni delle persone, di vedere le connessioni tra politiche, comportamenti, dati, tecnologie e cultura.
È ciò che permette ai decisori pubblici di orientarsi nella complessità, dove ogni scelta ha effetti domino e dove i problemi non hanno un’unica soluzione, ma molte scelte possibili.
Il design fornisce il mindset, il suo approccio permette di orientare le scelte dei decisori politici prima ancora di immaginare il servizio: di che cosa hanno bisogno i cittadini? Quale è l’origine del bisogno e su che cosa impattano le soluzioni attuali e quelle future?
Oggi nelle scelte politiche prevale una logica deduttiva: sulla base di alcune evidenze vengono operate scelte nette e non sempre adattabili al contesto.
Il design ribalta tale metodo mettendo in discussione proprio le certezze dalle quali traggono origine le politiche. Questo andamento, meno lineare, apre a nuove ipotesi individuando soluzioni innovative più mirate. Se infatti il design non trova spazio nella fase strategica di esplorazione del problema, ma anche di valutazione e monitoraggio delle soluzioni, può produrre soluzioni poco ancorate alla realtà, quelle che come cittadini abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
Progettare per l’ecosistema pubblico
Il design aiuta il processo di progettazione dei servizi pubblici sotto un’altra lente.
Perché chi lavora nel settore pubblico lo sa bene: la macchina amministrativa è fatta di silos.
Chi scrive le policy, chi le attua, chi le comunica.
Chi progetta i sistemi, chi li gestisce.
E in mezzo, i cittadini, che fanno da “colla” tra uffici che fanno fatica a parlarsi.
Il design rompe questa logica. Non lavora su un pezzo, ma tra i pezzi.
Mette attorno allo stesso tavolo chi decide, chi realizza, chi usa. Fa emergere attriti, bisogni, opportunità nascoste. E, soprattutto, costruisce visioni condivise, basate su ciò che serve davvero, non su ciò che è più comodo fare.
Questo è il passaggio chiave: dal design come strumento (template, workshop, interfacce) al design come infrastruttura di pensiero. È ciò che trasforma la politica da macchina che reagisce ai problemi che sopraggiungono a sistema che li previene, li interpreta e li riprogetta.
Allora il design nel servizio pubblico può essere utilizzato in 3 differenti modi, (anche se è il terzo che può cambiare veramente la relazione tra governo e cittadini):
- Come strumento tecnico, per migliorare processi o servizi.
- Come pratica di problem solving, per gestire l’incertezza e sperimentare, aprire a nuove idee.
- Come leva di trasformazione, per mettere in discussione le premesse stesse delle politiche e immaginare futuri alternativi.
Il primo approccio rende la pubblica amministrazione più efficiente.
Il secondo la rende più agile.
Ma è il terzo che la rende più intelligente, più umana, più capace di adattarsi.
È lì che il design diventa politica: quando, non solo “aiuta a decidere meglio”, ma aiuta a decidere cosa vale la pena fare.
Il design come competenza di governo
Integrare il design nei processi decisionali significa cambiare prospettiva:
- Coinvolgere le persone prima di scrivere le linee guida, non dopo.
- Lavorare in team multidisciplinari (policy maker, designer, data analyst, cittadini).
- Usare i dati come bussola, non come giustificazione.
- Progettare servizi end-to-end, che tengano insieme l’esperienza del cittadino e l’esperienza del dipendente pubblico.
- Sperimentare in piccolo per imparare in grande
- Concepire ogni servizio come un processo dinamico e iterativo, soggetto a monitoraggio continuo e a revisioni basate sull’esperienza reale di cittadini e operatori.
Quando questo accade, le politiche non nascono più “a tavolino”, ma sul campo. E il valore pubblico cresce, perché costruito con una consapevolezza più profonda.
Una nuova leadership pubblica
Perché tutto questo accada, serve una leadership diversa.
Una leadership capace di vedere nel design un alleato strategico, non un vezzo creativo. Capace di delegare, di ascoltare, di creare spazi per la collaborazione e l’apprendimento. Con il coraggio di affermare “non so ancora come sarà”, e di imparare insieme ai destinatari.
In fondo, governare oggi significa navigare l’incertezza.
E il design, con la sua natura esplorativa e iterativa, è la bussola migliore che abbiamo per non perderci. Il futuro dei servizi pubblici non si gioca solo sulla tecnologia, ma sulla capacità di reinventare il modo in cui inquadriamo il mondo e prendiamo decisioni.
Il design offre ai governi un linguaggio nuovo in grado di unire visione e azione, dati e umanità, strategia e ascolto. Di far emergere il meglio per il bene comune.
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Non so se cambieremo il mondo, ma su questo lavoreremo nel master Lumsa in SERVICE DESIGN PER LE ORGANIZZAZIONI E LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
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